Sliding Doors | 2011
I luoghi del consumo accolgono e formano i primi fruitori di una nuova logica allargata, che prevede la perdita di ruoli e insieme di confini netti, dove consumatori e consumati mostrano la stessa faccia di chi vende loro sogni a breve scadenza. Non ha senso ripescare nostalgie da bottega di paese quando vita e mercato hanno la medesima valenza, quando della soglia da superare per entrarne o uscirne non rimane nemmeno una traccia, se non il cicalio di un registratore di cassa o l’aria condizionata tenuta a bada dalle porte scorrevoli. Quello che esiste sta in vetrina o sullo scaffale, quello che si è lo si può e lo si deve cogliere al volo quanto un codice a barre, perché non c’è tempo per sapere né conoscere, tanto meno per raccontarsi, o almeno, non ce n’è abbastanza, non più. Lo si crede e lo si fa reale, e questa, forse, è la menzogna più grande, una verità indotta a plasmare il presente fino a deformarlo. Vi sono luoghi che di questa menzogna si vestono generosi e si lasciano fare, liberando contraddizioni potenti quanto posticce, eterne se colte nell’illusione del presente che non ha e non è più tempo, ma fragili se lo sguardo riconosce la superficie non scalfibile a cui si aggrappano. Qualcosa di noi è altrettanto durevole e traversa i secoli e oltre, si fa presente e ci racconta per intero al di sotto del guscio che si acquista a buon mercato come tale, ma che non è che un involto di carta che non andrà oltre la prima pioggia o un colpo di vento. Rimane quello che coglie lo sguardo fulmineo e che s’imprime di luce e che fissa un istante immobile, un singolo impietoso fotogramma rubato al fluire perpetuo e illusorio dell’apparenza, così che il presente torna a essere tempo, e insieme si può tornare a raccontarsi, e pure a perdonarsi di mentire, e di mentirsi.
Testo: Andrea Filippin